Il PROFUGO

Ad un certo punto della quarantena bisogna scegliere se affrontare il rischio del contagio e portare giù la spazzatura

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Fonte: INSTG (@lapaolina)

Ad un certo punto della quarantena bisogna scegliere se affrontare il rischio del contagio

e portare giù la spazzatura, o aspettare che gli incursori dell’ufficio d’igiene della ASL vengano a prelevarti in elicottero, disinfettino la casa col fuoco e ti sgancino sotto sedazione in un punto imprecisato del Mediterraneo.

Opto per il primo rischio e mi bardo alla bell’e meglio per affrontare, per la prima volta da giorni, il mondo là fuori. Tuta da imbianchino, occhiali da saldatore vinti alla schifombola di capodanno, mascherina recuperata dal bagaglio finalmente sfatto di un viaggio in Thailandia di sei mesi fa e guanti gialli della Vileda per i lavori domestici. Sui siti di e-commerce, d’altronde, la prima consegna disponibile di mascherine e guanti chirurgici è verso metà luglio.

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L’ascensore è rotto.

Mi toccano cinque piani di scale per scendere in cortile, carico di monnezza, bottiglie, scatoloni di Amazon e tutto ciò che si può accumulare prima che il pattume inizi a vivere di vita propria, sentirsi di famiglia e un giorno pretendere la reversibilità. Ovvio che un solo viaggio non basterà e che, al termine di questo cimento, il nervo sciatico avrà da dire la sua. Ma come si dice, “soffia il vento, urla la bufera / scarpe rotte eppur bisogna andar / a ritrovare la nostra pattumiera”.

Apro la porta, raccolgo le mie masserizie e, con la desolata risolutezza di un esercito in rotta, m’avvio sulla tromba delle scale tra un cristone e l’altro. E’ ora di cena e, da dietro le porte, si sente l’acciottolio dei piatti, l’immancabile telegiornale che snocciola i suoi desolanti bollettini di guerra, i bimbi allo stremo che non vogliono mangiare quello e quell’altro. E’ quasi fatta, manca solo un piano, dico a me stesso mentre vorrei avere altre tre braccia e non meno di otto dita per mano.

Arrivato al secondo piano

m’avvedo che la porta di quell’impunito repubblichino del Baiocchi è socchiusa. “Chiuda Baiocchi, che se no le entrano i partigiani!”, gli grido e filo di sotto. Mi accomiato dal mio pattume e m’accorgo, forse per la prima volta, di quanto sia bello quel cesso di cortile interno, con la sua bordura di pitosforo, gli oleandri e le forsizie in piena fioritura, e quella magnolia che il pelato del secondo piano ha fatto potare a sua immagine e somiglianza.

Mi fumo una sigaretta accorgendomi di non essermi ancora abituato a questo surreale silenzio milanese, finché non mi sento osservato. Scruto meglio nella penombra e vedo un gatto nero che mi guarda brutto. Guardo meglio. Non è un gatto nero qualunque, è lo zio Benny, il gatto -ovviamente nero- del Baiocchi, se possibile anche più scontroso del suo padrone. Ce l’avrà ancora con me per quella volta che, su richiesta del Baiocchi che non se la sentiva -codardo-  mi chiese di portarlo a castrare. A parte la politica e un carattere di merda, il Baiocchi è una mammola.

M’avvicino a distanza di sicurezza per fargli le solite boccacce

ma stavolta il Benny non fa lo stronzo come al solito. Continua a fissarmi con un’aria strana finché -miracolo- anziché tentare di cavarmi gli occhi pianta un miagolio strozzato e mi si struscia addosso. Lo guardo meglio e mi sembra un po’ giù di tono. Strano, mi dico, il Baiocchi tiene a questo gatto più che ai suoi figli, e conoscendoli non me ne meraviglio affatto. Bah.

Schiaccio il mozzicone per terra, tiro su il Benny e risalgo le scale, deciso a riportarlo dal Baiocchi. La sua porta è ancora socchiusa. Strano. Non m’avrà sentito, prima. Suono il campanello e butto là un “wey Baiocchi, abbiamo un disertore!” ma nessuno risponde. La casa è buia. Magari starà dormendo. Strano però a quest’ora. Apro la porta con  mille cautele e lascio a terra il gatto, che si precipita miagolando in cucina. M’inoltro nell’appartamento, volutamente ignorando i vari cimeli della RSI sparsi un po’ dappertutto. Non vedo e non sento nessuno. Accendo le luci. La casa sembra essere stata svaligiata. Le ante della cucina e dei mobili in soggiorno sono aperte. Cassetti e stipi sono stati svuotati. Sul tavolo del soggiorno campeggiano due sacchi neri pieni di stoviglie e ninnoli. Nella camera da letto un gran casino, il letto è ancora sfatto, come se il Baiocchi fosse scappato all’improvviso. Ci sono degli indumenti per terra. Le ante degli armadi sono spalancate.

Sul comodino campeggiano degli occhiali rotti, un’agendina e un bicchiere rovesciato. Di acqua non c’è traccia, dev’essersi asciugata, segno che è passato un po’ di tempo da quando… passo in cucina attratto dai disperati miagolii del Benny, che fissa attonito la sua ciotola vuota e rotta, chiaramente, da una pedata.

Prendo su agendina e gatto, chiudo la porta e mi precipito sulle scale.

Benny non pare particolarmente entusiasta della situazione, ma basta aprirgli una scatoletta di tonno per rinviare lo scontro. Che peraltro non sarà tanto con me, quanto con Donna Adelaide che ha percepito la presenza di un estraneo e si prepara a dare battaglia. Passa infatti meno di un minuto che i due gatti sono gonfi come pesci palla e soffiano come mantici. Cazzo, non ci ho pensato. “Donna Adelaide, si calmi perché è un’emergenza” (a Donna Adelaide, in casa, diamo del lei).

Chiamo la Polizia. C’è un ladro nell’appartamento di un vicino. L’ha sentito? No. L’ha visto? No. Ha rubato qualcosa? Non lo so. Come se ne è accorto? C’era la porta aperta, gli armadi svuotati, i sacchi. Niente mascherine da Banda Bassotti, piedi di porco o roba del genere? Con la netta sensazione che mi stesse pigliando per il culo rispondo no, grazie lo stesso, e chiudo la comunicazione. Da lì nessun aiuto.

Magari ne sanno qualcosa quelli dell’appartamento di fronte. Mi sorprendo a notare che i due gatti, incazzati, si guardano in cagnesco. Mah. Chiudo la porta -che dio ce la mandi buona- e scendo dagli Hernandez che abitano di fronte al Baiocchi. Aj señor, lo han traido al ospital hace una semana. Positivo!, sussurra guardingo. Con la ambulancia, señor. Ero chiuso in casa, non ne sapevo nulla. E la porta aperta? Aj no se, esta mañana la puerta estaba cerrada. ¿Llamaste a la Polizia? Un labirinto.

Rientro in casa deciso a fare chiarezza.

Donna Adelaide e lo zio Benny sono esattamente dove li ho lasciati, se possibile più gonfi e minacciosi di prima. Sfoglio l’agenda per avvisare i figli dell’accaduto. Li troverei ad occhi chiusi tra mille nomi. Italo e Littoria, figurati che fantasia. Littoria, che se non altro ha avuto l’accortezza di cambiar nome in Vittoria, vive negli States da una vita, inutile preoccuparla. Con un vago senso di disgusto chiamo l’Italo. Mi stava sulle palle da quand’eravamo ragazzini. Un bulletto da quattro soldi, meschino, subdolo e beffardo. In quarant’anni è mancata l’occasione di cambiare idea. Il Baiocchi a modo suo lo adorava, e quando la Jole, sua madre, se ne andò tanti anni fa, quello manco venne al funerale. Me lo ricordo quel vecchio legionario del Baiocchi, gli occhi lucidi, a inventarsi scuse per giustificarne l’assenza.

Italo ciao, non so se ti ricordi, abito nello stabile di tuo padre.

Che vuoi, mi risponde.

Antichi pruriti ricominciano a scorrermi nelle mani. Evidentemente quella volta che all’oratorio gli avevo tirato una sedia in testa -una ventina di punti, magari ne avessi io ora altrettanti sulla patente- non gli è bastata.

Dovresti fare un salto, credo stiano svaligiando la casa di tuo padre, sono entrato e non c’è nessuno, tutto insaccato, il Benny è qua da me.

Mio padre è morto al Sacco ieri, sto sgombrando la casa per venderla.

Non lo sapevo, mi spiace.

Me ne frego. Era ora. Quel gatto tignoso glielo dovevo strangolare, avrò chiuso male la porta e sarà riuscito a scappare. Fanne quel che vuoi e impara a farti i cazzi tuoi.

Click.

Inspiro. Espiro. Ripeto l’esercizio 30 volte.

Ma non riesco ad impedirmi di ripensare a quella telefonata. Sarà la noia dell’isolamento, sarà l’inazione forzata, sarà che sono un po’ vendicativo, sarà che la penso come Hannibal Lecter, ma considero la scortesia una deformità inconcepibile.

Vola dunque alato il pensiero a quella mazza da baseball che tengo sempre vicino alla porta ed a quel vecchio lassativo scaduto per cavalli che dovrei ancora avere giù in garage. La quarantena non può durare in eterno, Italuccio bello, e ci terrei proprio ad onorare con te la memoria di tuo padre in un modo che quest’ultimo avrebbe sicuramente apprezzato. Ma in fondo, affaracci suoi. Andasse all’inferno.

La priorità, ora, è quella di portare avanti l’isolamento chiuso in una gabbia con due gatti dalla pessima reputazione che, per ragioni politiche e territoriali, si detestano. S’addensano nubi di tempesta. Ciò che conta è che ora lo zio Benny sia qui al sicuro. Per quanto un essere vivente possa essere al sicuro con Donna Adelaide nei dintorni, intendo.

Capirai col tempo, Benny: parlo per esperienza.

ANDREA BULLO

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Andrea Bullo
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