Milano, contaminazioni e visionarietà (parte II): gli anni ’60

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Milano anni ’60: contaminazioni+visionarietà. Il design diventa ‘altro’
Quest’articolo va a zig zag tra la storia recente, non vuole e non può essere esaustivo. E’ quindi essenzialmente uno spunto per osservare come, con la vocazione alla contaminazione ed alla visionarietà, la metropoli meneghina sia riuscita a produrre un ‘miracolo’ dalla vaste implicazioni non solo commerciali ma anche sociali.

Contaminazione, condivisione di idee, creatività, eccellenza manifatturiera

Approfondiamo come la contaminazione tra l’ondata di designers e architetti (quelli diciamo di genio convenzionale come Castelli, Dorfles, Gardella, MunariAulenti, Magistretti, Frattini, Portaluppi, Castiglioni, Giò Ponti, Marco Zanuso ed Enzo Mari – non me ne vogliano i tanti che non cito – e quelli iconoclasti e radicali capitanati dal più famoso Ettore Sottsass) e la maestria e la conoscenza della Brianza industriosa, fece scaturire il miracolo del design anni ’60 tutt’ora in pieno sviluppo come ci confermano i dati più sotto.

Qualche cifra per capire meglio

Il Salone Internazionale del Mobile è il più importante punto d’incontro, a livello mondiale, per gli operatori del settore dell’abitare. La sua prima edizione, a Milano, risale al 1961 e vi parteciparono 328 espositori e 12.100 visitatori; nell’ultima edizione 2016 vi hanno partecipato 2.407 espositori e 372.000 visitatori con una presenza nel ‘Fuori Salone’ che ha superato le 400.000 persone nei 1.260 eventi disseminati nella città ed in Brianza.

Dal taglio di Lucio Fontana in poi…

Possiamo dire – forse azzardando un po’ – che l’edizione 1968 della Triennale di Milano in contemporanea con la Biennale d’Arte di Venezia, alla luce della totale chiusura e contestazione in ambedue le occasioni, abbia segnato il punto catartico di tanti movimenti che volevano – a volte solo in modo velleitario – che il design e la cultura più in generale diventassero qualcosa di più di un mero fatto estetico ed ergonomico, un mix sulfureo di lotte sociali, di visione, di stili e costumi, di laboratorio permanente. Quindi altri spazi e territori non sempre di immediata comprensione. Il design semi artigianale “firmato”, tra le altre cose, se la deve vedere con la produzione industriale. Sta cambiando il modo dell’abitare gli spazi, sia che essi siano commerciali, espositivo-artistici piuttosto che familiari. Ma sappiamo bene quanto questo “abitare gli spazi” abbia un significato trasversale a moltissimi altri ambiti, una nuova vision che innesca nuovi comportamenti e nuovi stili di vita.

Ed ecco emergere varie personalità o collettivi che impressero quel valore aggiunto che definì con più chiarezza la portata del movimento: il designer Sambonet proponeva alla Rinascente, dopo un soggiorno volontario in un ospedale psichiatrico brasiliano, un albero di Natale capovolto, con le palline che pendevano dalle radici contro un’estetica “di addobbo”; Gaetano Pesce stupiva con le sue provocazioni in resina poliuretanica; Fornasetti padre (mentre il figlio Barnaba editava ‘Get Ready’, un magazine underground) spiccava il volo con la sua produzione ai limiti del movimento surreale, mentre Fiorucci apriva la sua prima boutique pop a Milano e Nanda Vigo connetteva aree diverse in bilico tra arte, design e qualcosa di altro difficilmente definibile.

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Molti personaggi e gruppi che avevano fatto della genialità iconoclasta il loro mood emersero contribuendo al “Laboratorio Milano“, anche se avevano luoghi di elezione diversi: Gaetano Pesce, ad esempio, era un designer e scultore diviso tra Milano, la Liguria, il Veneto e New York; il Gruppo Strum proveniva da Torino mentre da Firenze partivano gli Archizoom, il SUPERSTUDIO e il Gruppo 9999. Per la costruzione di questo storytelling avvincente e intricato mi viene facile pensare che uno dei punti di svolta che in qualche modo accomunò tutta la classe creativa che orbitava intorno a Milano fosse “il taglio” di Lucio Fontana (il primo datava 1958): tutti questi operatori della creatività contaminata sono passati, quasi per forza, attraverso questa fenditura che permetteva di intravedere l’ “altrove”. Diceva il fondatore dello Spazialismo: “… L’arte sarà un’altra cosa… Non un oggetto, non una forma… L’arte diventerà infinito, immensità materiale, filosofia” (ricordiamo che Fontana ha superato, recentemente, i 21 milioni di dollari di quotazione).

Proprio legato a questa “experience”, cioè alla sua adesione al movimento di Fontana, Ettore Sottsass diventava figura emblematica e driver di questa Milano portatrice di nuove visioni: era architetto, pittore, designer e fotografo ma anche art director, visual designer, promotore di innovazione, allestitore.

Visionario e artista, coglie perfettamente il senso dei tempi in questa citazione: “la preoccupazione, in quei momenti, era disegnare oggetti che non avessero confini precisi dal punto di vista biologico o culturale ma oggetti che accogliessero l’indecisione che c’era nel mondo”, tanto visionario quanto la moglie, quella Fernanda Pivano che tanto ha fatto per tradurre, supportare, diffondere il verbo della rivoluzione letteraria statunitense capeggiata prima da Hemingway e poi dai poeti della beat generation (ma non solo)… Ecco che la casa dei Sottsass in via Manzoni si trasformò in un centro di cultura avanzata con la frequentazione sempre più assidua dell’intellighenzia statunitense, appartenente soprattutto alla beat generation: Jack Kerouac, Allen Ginsberg, Gregory Corso, Lawrence Ferlinghetti e Peter  Orlowsky. Il tutto sempre in quella via Manzoni che vedeva strani nuovi negozi accanto alla sede del Centro Domus e della grande rivista omonima, la cui direzione era in mano al Giò Ponti che aveva iniziato la sua poliedrica attività milanese negli anni ‘30, per passare alla sede della Galleria del Naviglio (qui negli anni ’50 nasce il Movimento dello Spazialismo) in cui, nel 1970, Renato Cardazzo ospita “Naviglioincontri – Dove l’arte incontra l’Industria, la Moda, la Chimica, la Musica, l’Architettura, il Cinema” (primo esperimento di grande contaminazione culturale con il mondo delle aziende).

Un’altra figura trainante sulle scene di quegli anni fu Bruno Munari, che con la propria versatilità ha operato in un continuum senza soluzione affrontando in stile libero: pittura, scultura, cinematografia, disegno industriale, grafica, design, scrittura, poesia, didattica e rifuggendo, come molti altri personaggi maturati nel “laboratorio Milano”, ad ogni stretta classificazione.

Parliamo di via Manzoni come scusa per poter elencare il puzzle in apparenza scomposto della città: la ‘Gallerie d’arte Annunciata’ e quella de ‘Il Milione’ che tenne a battesimo astrattisti nell’ante-guerra; la sede della libreria Feltrinelli che a sua volta diffondeva, nelle sale del primo piano, un altro tipo di cultura – quella “Guevariana” unitamente a oggetti del “beat londinese” (in parziale contaminazione con la visione pop di Fiorucci in piazza San Babila) – che avrebbe avuto il suo drammatico punto di arrivo nella morte del suo artefice, Giangiacomo Feltrinelli, durante la preparazione di un attentato da lui portato alle estreme conseguenze personalmente nel marzo 1972 sotto un traliccio a Segrate.

Tutti questi erano i “segni del tempo” con cui si doveva far conto nella città in un turbinio di nuove idee, violenti scontri sociali, rivoluzione sessuale e arte d’avanguardia e nuovi costumi. In qualche modo collegata con la Pivano ed il free Magazine ‘Pianeta Fresco’, molte sono le fanzine e i giornali underground che fiorirono a Milano: oltre al noto Re Nudo, Get Ready, Om, Puzz, Cerchio Magico, Il Giornale Sotterraneo e molti altri) distribuite per strada; la produzione editoriale in qualche modo di frontiera comprendeva però anche riviste come Caleidoscopio che, se pur era editata dal Gruppo Busnelli, ha avuto sempre vita assolutamente libera da vincoli, una libertà garantita a partire dal 1969, da Gianni Sassi e Sergio Albergoni, geniali innovatori e fondatori dell’agenzia ALSA e di numerose altre iniziative culturali innovative (l’etichetta discografica Cramps, il trimestrale di tecnologia e poesia ‘Frankenstein’ e la rivista di letteratura ‘Alfabeta’); la rivista IN che trattava di arte, moda, architettura e design distribuita dal 1970 e fondata da Pierpaolo Saporito e ‘Azimuth’ (durata solo due numeri), una rivista di arte d’avanguardia fondata nel 1959 da Piero Manzoni e Enrico Castellani.

Sul versante ufficiale dei magazine di architettura e design, spiccavano quelli ormai affermati nel mondo come ‘Casabella’ sotto la direzione di Ernesto Nathan Roger, l’eco-istema editoriale di ‘Domus’ che trova nel ‘68 Giò Ponti come direttore, il magazine ‘Interni’ vivo dal 1954 e il mensile ‘Ottagono’ operante dal 1966 …

La scena milanese era in ogni caso fiorente anche di giovani talenti “nativi trasversali” come Maurizio Turchet, designer, artista, fotografo e video maker che passò, in giovanissima età, attraverso esperienze multiple confluite nella preparazione di quella che sarebbe stata la mostra “svolta” della creatività italiana, cioè l’Italian Domestic Landscape, presentata al MOMA di Yew York e alla collaborazione lo studio Mario Bellini che lavorava per il brand Cassina.

Ed è proprio con Cassina che troviamo la preview, agli inizi degli anni ’70, del Fuori Salone che stava prendendo consistenza proprio in via Durini, attraverso una serie sempre innovativa di show room, mostre e performance.

Una smart city introversa

Milano, come ho accennato prima, è una ‘smart city introversa’: trascura o nasconde spesso e volentieri i suoi tesori, di cui moltissimi ancora da scoprire. Due piccole annotazioni a questo riguardo: Nanda Vigo, insieme a Lucio Fontana ed Enrico Castellani, lavorarono sull’androne di un anonimo palazzo per uffici in via Palmanova e Mario Schifano, alla vigilia dell’inaugurazione di una mostra, inviò allo Studio Marconi alcune tele e chiese al titolare di portarle nel parco di Milano perché la mattina seguente le avrebbe fotografate mentre venivano scaricate nel verde: queste foto sarebbero diventate anch’esse opere indipendenti.

Ecco, questa era Milano: questo “carico” di visioni, tensioni, valori ed anche lati oscuri diventa il “segno” che avrebbe rimodellato lo skyline della cultura e del design sino alle sue fondamenta coniugando una doppia parola chiave fondamentale: contaminazioni+visionarietà.

Foto: LucioFontana, ritratto di von Lothar Wolleh – Milano, 1967


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Fabrizio Bellavista
Partner dell'Istituto di Ricerca Emotional Marketing e Digital Transformation Consultant. Nato a Milano, lavora in rete dal ‘96 e nello stesso anno accosta il marketing emozionale: nel ’99 è fondatore del “Premio Cultura di rete”. Nel 2004/6 è direttore responsabile dei magazine ADV e ADVNEXT e, dal 2006, si focalizza sulla “Digital Transformation" e co-progetta nuovi format di incontri: ‘MarketingCamp’, ‘Innovative Day’, ‘Conversazioni Interattive’, 'Rounded Minds', 'Inno2Days'. Autore del libro “IDEE”, è presente nel libro “Impresa 4.0 Marketing e comunicazione digitale a 4 direzioni”, nell'e-book “Marketing e valorizzazione territoriale”, nel libro “Holistic Society”, nel libro “Markethink”, nell’e-book “#2015. Connettere persone, luoghi, oggetti, idee ed emozioni” ed ha in preparazione “La logica dell’acqua: che mercato saremo”. Scrive per Harvard Business Review Italia, Advertiser, Dolce e Salato, Mymarketing, Milano Città Stato, Thebizloft.com, ed è suo il blog 'LiquidoMercato'. Collabora con Lab#ID dell'Università Carlo Cattaneo per la valorizzazione delle tecnologie NFC e di mobile payment.